Per caso, la Normandia d’inverno

di Cinzia Rita Gaza

Diversi anni or sono, ci trovavamo in quattro a Parigi per le vacanze di Natale. Parigi è sempre Parigi, ma quell’anno il freddo mordeva. Girovagare per la città non era una vacanza ma una punizione. Così, dopo una consultazione tra quattro nasi arrossati, abbiamo preso la decisione di tentare la fortuna altrove. Altrove è stato Rouen, che in poco più di un’ora di macchina prospettava un clima più mite.

Rouen, come tutti sanno, è un gioiello, tanto da essere detta “la ville-musée”. La cattedrale è uno dei massimi capolavori dell’architettura in stile gotico fiammeggiante, con la sua altissima flèche (115 metri) e con la Torre del Burro, che si chiama così perché costruita con le donazioni dei cittadini in cambio della possibilità di mangiare burro in quaresima. Tanto ne hanno mangiato da costruire una torre. Il gotico dilaga anche in altri preziosi edifici: la chiesa di Saint-Ouen, la corte di Saint-Maclou, ossario e lazzaretto, il Palazzo di Giustizia, per fare solo alcuni esempi. La splendida città vecchia,
tutta pedonale, è interamente costituita da case a graticcio. La piazza del Vieux-Marché, in cui fu arsa Giovanna d’Arco, ospita una suggestiva chiesa moderna a lei dedicata, bene integrata nell’architettura urbana medievale. Il rinascimentale Gros-Horloge è uno degli orologi astronomici più antichi d’Europa.

Il 31 dicembre ci coglie impreparati. Tutti i ristoranti sono chiusi o sold-out. Così, cena in hotel con delicatessen comprate in gastronomia e bottiglia di champagne stappata al porto fluviale, alla mezzanotte salutata dalle sirene di tutte le navi. Siamo gente che sa adattarsi.
Per inciso, in Normandia si mangia benissimo ovunque, nei ristoranti che abbiamo scelto a caso. Crostacei e coquillages come piovesse e dolci indimenticabili. Con un’avvertenza: qui è tutto intriso di burro. Un burro meraviglioso, profumatissimo, ancora venduto al taglio. Una cucina di colesterolo sfrenato. Mi spuntano brufoli come popcorn, ma va bene così. À la guerre comme à la guerre.

Il nostro hotel nel centro storico è tutto uno scricchiolio di travi e un cigolio di pavimenti, in paurosa pendenza. Nella hall,
il mattino di capodanno, mi cade l’occhio su un poster che raffigura un posto da stropicciarsi gli occhi. Oggi Honfleur ha guadagnato rinomanza, ma allora era sconosciuto ai più, noi inclusi. Con una rapida consultazione della carta scopriamo che si trova alla foce della Senna, a poche decine di chilometri da Rouen. Detto fatto: bagagli e via.

Honfleur. Il paesaggio, dal continentale marrone bruciato dell’inverno, diventa verde smeraldo di erba. Una ciambella di colline verdi, con mucche pezzate al pascolo, circonda un bacino artificiale cinquecentesco, separato dalla Senna da un sistema di chiuse. Intorno al bacino, che è porto di pesca, un villaggio di case con tetti e facciate in ardesia, alte e strette. La chiesa a due navate, realizzata dai mastri d’ascia, è praticamente fatta da due chiglie di nave rovesciate. Il clima è mite, si gira in maglione. Un Calvados sorseggiato in un déhors del porto ci fa sentire in pace con il mondo.

«E adesso che facciamo?». Ormai ci abbiamo preso gusto. Quale località attraente si trova a tiro? Ma la leggendaria Deauville, il santuario del turismo balneare Belle Époque! Antico villaggio di pesca, ville splendide. Eccoci a passeggiare pigramente sotto un pigro sole, rasente le lussuose cabine ciascuna dedicata a una star del cinema, sulla mitica Promenade des Planches. Davanti a un colossale piatto di fruits de mer, decidiamo la prossima tappa che, a questo punto, è quasi scontata: Mont Saint-Michel.

Troviamo due stanze in un modesto alberghetto a qualche chilometro dal Mont Saint-Michel. C’è poco da fare i difficili: gli alberghi sono quasi tutti chiusi. Il giorno dopo, il Monte. Il mare non c’è, con la mezza luna la marea non arriva neanche in vista, si tiene al largo. Ciò nonostante, si capisce perché da secoli la costruzione sia nota come “la Merveille”. La stretta
strada che sale verso il monastero attraversa un villaggio deserto. Niente botteghe di paccottiglia, crêperies, bistrots. Tutto chiuso. C’è un silenzio medievale. A visitare il monastero, oltre a noi quattro, c’è solo un’altra coppia, per cui il monaco che ci accompagna apre porte chiuse a chiave e le richiude dopo il nostro passaggio. Mi attardo nel chiostro, rapita da una trifora aperta sul pensoso nulla che si perde all’infinito, nella luce del sole calante, e sento la chiave girare nella serratura. Solo un fremito di inquietudine, poi mi persuado che non sarò abbandonata e mi concedo qualche minuto di intensa contemplazione. E’ con quello stato d’animo che, scesi dal Monte, mi incammino (da sola) verso l’orizzonte, sul fondo sabbioso lavorato dalle onde, nei bagliori del crepuscolo. Il tempo è repentinamente cambiato. Nevica fitto, con un forte vento che ulula e spinge i fiocchi in orizzontale. Gabbiani invisibili stridono. Esperienza forte, grande emozione. Mi giro indietro e vedo la mole del Monte piuttosto lontana e sfumata nel calare del buio e nella tormenta. Mi do della cretina: rischio di perdermi in una notte d’inverno, in un posto di sabbie mobili senza punti di riferimento, tutto per l’incanto di una potente suggestione romantica. Torno veloce sui miei passi, ma con un’esaltazione che non mi abbandona.

Basta. Si torna a casa. Due giorni di viaggio sotto una nevicata implacabile. Ma va bene così. Da allora, siamo tornati parecchie volte in Normandia, in estate. L’abbiamo setacciata e scandagliata, vittime del coup de coeur di quella prima volta. Devo però dire che la bella estate, con le sue torme di visitatori, non ci ha mai più restituito la stessa intensità di quel viaggio fatto per caso.