a cura di Patrizia Varetto
In questa rubrica mensile non mi farò guidare dalle classifiche dei libri più venduti ma proporrò testi della letteratura italiana e straniera contemporanea che a mio parere meritano di essere letti, (forse anche riletti) e ricordati.
Libri che lasciano un segno, più un graffio che una carezza, e che dovrebbero passare da una generazione all’altra come è avvenuto in passato per i classici. Libri che sono testimonianza e profezia.
Libri che includono la Storia, vale a dire il contesto in cui si svolgono le storie, e ce ne restituiscono l’umore, l’orrore, la magnificenza, le miserie. Provo ad avventurarmi in questo viaggio.
Ebbene sì, ancora lui. Non nascondo la mia passione per questo autore spagnolo che meriterebbe il Nobel (non lo dico solo io!). Ho già recensito Berta Isla, uno degli ultimi suoi capolavori.
Andando a ritroso nella sua produzione ho scoperto quest’altro gioiello risalente al 2014.
Siamo nella Madrid degli anni Ottanta e assistiamo all’educazione sentimentale di Juan de Vere, giovane di bell’aspetto e di belle speranze che viene assunto come assistente dal noto regista Eduardo Muriel. La vicinanza al suo eccentrico e affascinante datore di lavoro, che il giovane ammira enormemente, e la presenza nella sua casa, consentono a Juan di assistere al menage di una coppia anomala, fortemente squilibrata, vittima di un passato che la condiziona e che non si può dimenticare. Come giustamente è stato scritto, Così ha inizio il male è un romanzo sul desiderio ma anche sul perdono e sulla difficoltà di farli coesistere.
Uno dei più bei libri che mi è capitato di leggere negli ultimi anni è “La porta” di Magda Szabò, la grande scrittrice ungherese scomparsa nel 2007. Nei romanzi si cercano spesso trame travolgenti, intrecci complicati, varietà di personaggi. Niente di tutto questo ne La porta. La storia ruota intorno alla relazione che si instaura tra l’enigmatica domestica Emerenc e la padrona di casa, che è poi l’autrice. Inoltrandosi nella lettura risulta infatti evidente che la storia è autobiografica. E’ un rapporto di amore-odio che si esaspera nel tempo e si riempie di sfumature anche oscure, sino alla morte di Emerenc nei confronti della quale l’autrice scoprirà di provare sentimenti contraddittori molto intensi. In questa storia, che la Szabò inquadra in un contesto storico drammatico, l’Ungheria della prima parte del Novecento, la figura e la personalità di Emerenc sono dipinte da un pennello magistrale. Il livello della scrittura è straordinario: La porta è uno di quei rari romanzi in cui forma e contenuto sono un tutt’uno e risuonano perfettamente.
Olive Kitteridge è stato giustamente definito “romanzo in racconti”. E’ infatti un testo composto di storie che si inanellano come perle di una collana unite dallo stesso filo .
Il romanzo si sviluppa all’interno di un unico, piccolo cosmo, la cittadina di Crosby nel Maine dove vive Olive, insegnante in pensione che osserva la realtà che la circonda con sguardo non convenzionale. Le vite e le vicende dei suoi familiari e dei suoi concittadini tutto sommato sono banali: nulla di eccitante accade a Crosby ma è proprio indagando il quotidiano che l’autrice mette a nudo i meccanismi che muovono sentimenti, azioni, conflitti dei personaggi che sono gli stessi in ogni angolo del mondo in quanto declinazioni della condizione umana. Il risultato che la Strout raggiunge è notevole; a dispetto della “povertà” della trama, la sua scrittura pulita e diretta risulta di rara efficacia e profondità. Dalla pagina affiorano con limpidezza disarmante storie di tutti i giorni che non per questo meritano l’oblio.
E’ da poco disponibile, per i tipi di Einaudi, una nuova edizione di Via Gemito di Domenico Starnone, a mio avviso uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi vent’anni e forse, per l’autore, il libro della vita.
Pubblicato nel 2000, vincitore del Premio Strega 2021, Via Gemito è un romanzo in gran parte auto-biografico in cui campeggia, protagonista indimenticabile, la figura ingombrante del padre.
Tale padre, Federico, in dialetto napoletano Federì, o anche Fdrì, è un irrequieto ferroviere aspirante pittore. Compresso da un destino che crede ingiusto, convinto di essere un grande artista, Federì, sempre a corto di soldi, proteso verso un’affermazione che non arriverà mai scarica tutte le sue frustrazioni sulla numerosa famiglia e in particolare sulla moglie. E’ quest’ultima, Rusiné, il bersaglio di furie e smanie in un divenire tragico e talvolta comico. A raccontare il padre è Mimì, il figlio maggiore, vale a dire lo stesso Starnone, bambino e poi adolescente, che ripercorre gli anni difficili in una Napoli sulfurea, tragica e allegra, dove le illusioni mi mescolano dura realtà del quotidiano.
Nel suggerire questo libro, vorrei spezzare una lama a favore del povero Federì. E’ infatti opera sua il quadro I bevitori riprodotto sulla copertina dell’edizione Einaudi. Forse aveva ragione lui: aveva talento.
Berta Isla e Tomas Nevinson si sposano dopo anni di fidanzamento casto. Berta sa ben poco di suo marito. Non sa per esempio che durante il periodo che ha trascorso da studente a Oxford è successo qualcosa che ha cambiato la sua vita e a cui lui non potrà più sottrarsi. Qualcosa che non è possibile rivelare e che lei accetta di non sapere, rassegnandosi alle misteriose sparizioni del marito, che durano mesi e poi anni, costringendola a una perenne attesa che si scioglie con un finale a sorpresa degno di un thriller. D’altra parte, in questo magnifico romanzo, che fotografa un matrimonio e la società in cui è calato, ci sono tutti gli elementi della suspence: spionaggio, servizi segreti, intrighi, personaggi loschi. Ma siamo ben oltre la letteratura di genere, in Marias tutto è sublimato ad altissimi livelli: ci costringe a riflettere su ogni battuta, su ogni frase, su ogni parola.
Come sempre, lo stile è denso, articolato, sofisticato. I romanzi di Marias sono cattedrali da esplorare senza la fretta del turista. Richiedono la pazienza e la devozione che si devono ai capolavori.
Javier Marias è nato a Madrid nel 1951. Tra i suoi romanzi più celebri Domani nella battaglia pensa a me, Un cuore così bianco, Così nasce il male, Nera schiena del Tempo.
In Italia è pubblicato da Einaudi.
Nella Istanbul degli anni '80 Cem che è studente liceale, resta orfano del padre, un dissidente comunista. Per aiutare la madre, il ragazzo va a lavorare in una libreria dove alimenta il sogno di diventare scrittore.Quando la libreria chiude, nel bisogno di finanziarsi l'università, per un'estate lavora come apprendista per un costruttore di pozzi. Un'estate decisiva che segnerà il suo destino, il rapporto profondo con mastro Mahmut, l'incontro con l'amore anche se impossibile, l'iniziazione sessuale e il segno che questa lascerà.
Ambientato nel nostro presente, il romanzo non contiene riferimenti espliciti alla realtà turca e agli eventi tormentati che ne stanno segnando la storia.
Pamuk, premio nobel per l'imperdibile romanzo 'Istanbul' , ci consegna una narrazione distante e coinvolgente al tempo stesso. Sceglie la modalità che gli è più propria e di cui è maestro, costruendo una storia di sovrapposizioni, di Oriente e Occidente insieme, di chiome rosse con richiami lontani, di archetipi e miti di valenza universale dai tempi dei tempi, che influenzano la vita del protagonista.
Romanzo riuscito, che ci calamita e ci restituisce il senso di essere altri, diversi, i cui destini, però, si rincorrono nel disegno della vita, a Oriente come in Occidente, figli tutti di un'unica Terra.
In questo piccolo e godibilissimo libro, Franca Valeri parla di sé e dei suoi novantanni.
L' intelligenza, la verve, la caustica ironia che la contraddistingue appaiono intatti. Anzi, il distacco con cui guarda le cose - un distacco che non è rinuncia né lamento – rende le sue riflessioni ancor più acute e profonde. Il libro è vivo, cangiante, racconta una vita spesa all'insegna del lavoro, molto amato, ma anche dell'amicizia, dell'amore, della curiosità e un presente che seppure reso più faticoso dalla vecchiaia, offre ancora molto.
In Franca Valeri sorprende la prospettiva con cui osserva sé stessa e gli altri, una prospettiva che, come recita la quarta di copertina, “ci fa il regalo di ribaltarci la testa”.
Ogni parola è esatta, pesata, frutto di un'attenzione al linguaggio davvero rari. Colpisce la capacità di esprimere concetti complessi in forma estremamente sintetica, e sempre con la lucida, feroce ironia che contraddistingue questa eccezionale “superstite”.
Protagonisti sono Giulio Maria, non ancora quarantenne, e il mondo in cui si muove, anzi in cui nulla accade, un non luogo chiamato Capannonia, in un presente piatto, senza particolari prospettive. A parte il collega e amico, antropologo come lui, e una fidanzata sempre troppo alle prese con il suo smartphone, gli altri personaggi sono anziani: la madre con cui Giulio Maria si è comodamente adattato a vivere e la sua ex-professoressa di latino, che la madre ha preso in casa come ospite pagante. Il padre è morto, ma in qualche modo è una figura ancora ingombrante.
La relazione con la madre e forse ancor più con la professoressa, avvertita sempre come tale, sono spunti appena abbozzati ma che parlano del mondo delle relazioni tra generazioni. Altro protagonista in primo piano lo smartphone, che Giulio Maria odia e definisce “egofono”, dando così soddisfazione agli over di età che anacronisticamente si riconoscono nel quasi quarantenne Giulio Maria.
Il libro è stringato ma sostenuto dall'attenta scelta lessicale, già nel titolo e nelle disquisizioni sul pronome "Io". Un libri scritto con ironia, amarezza e senso critico alla Michele Serra, che odia lo smartphone e lo dice qui, così, attraverso un giovane, ma in realtà marcando il gap generazionale di appartenenza culturale e anagrafica.
Houellebecq non è un personaggio accattivante. C'è in lui qualcosa di torbido, oltre che nelle opinioni e nelle prese di posizione, anche nell'aspetto. Non è chiaro se abbia fatto di proposito dello “scrittore maledetto” e provocatorio il suo personaggio. Ma è uno scrittore capace.
Con Sottomissione, che solo qualche anno fa sarebbe stato definito un romanzo di “fantapolitica”, ha fiutato il tema vincente: il dilagare di un Islam incontenibile e incontrollabile, che alla fine viene accolto e “incorporato” nella grande Francia per assenza di alternative convincenti.
Siamo nel 2022, l'Occidente è sulla via dello sfacelo ideologico, i maître à penser sono scomparsi, i politici di razza estinti. In questo scenario, il partito dei Fratelli Musulmani vince le elezioni e impone i suoi schemi. Schemi rigidissimi ma non privi di attrattiva nel fornire alternative non solo alla massa, ma anche a persone come il protagonista del romanzo.
François è un docente di letteratura di mezza età, studioso depresso che rappresenta, nelle intenzioni dell'autore, l'intellettuale di sinistra dei nostri tempi. Un uomo senza qualità, dedito compulsivamente ai piaceri più facili, non più interessato o disposto ad alcun tipo di impegno o presa di posizione, che alla fine si lascia “convertire”. Si può essere disgustati da questa fattispecie umana. Ma esiste. Eccome se esiste.
Il tema è intrigante e la penna di Houellebecq, nelle pagine iniziali, promettente. Poi purtroppo l'autore si rivela per quello che probabilmente è: un depresso morboso che coltiva una visione delle relazioni umane piuttosto ripugnante, a partire dal rapporto con le donne a cui non viene assegnato alcun ruolo e considerazione se non quello sessuale. La stessa studentessa Myriam, l'unica per cui il professore nutra qualche rimpianto quando la loro relazione di letto finisce, non è nient'altro che un corpo. L'unica altra dote riconosciuta al genere femminile è l'abilità in cucina. Sottomesse a letto e brave in cucina, le donne velate non dispiacciono affatto al professore in disarmo. Questa visione indispettisce e disgusta il lettore sensibile - soprattutto la lettrice - e giustamente. Ma bisognerebbe scindere i piani e andare oltre. Bisognerebbe essere in grado di accogliere la provocazione in nome della letteratura e riuscire a distinguere uno scrittore che comunque si fa carico delle sue idee, per quanto discutibili, rispetto ai tanti incapaci “allineati” che solcano le classifiche dei best-sellers e agli pseudo-intellettuali politicamente corretti. Lo stesso sforzo che occorre fare per entrare nelle pagine di quel capolavoro assoluto che è Viaggio al termine della notte di Céline.In conclusione, ve ne consiglio la lettura.
Francesca Melandri, giornalista, è autrice di due romanzi, entrambi di grande soddisfazione.
E' per questo che mi ritrovo, da tempo, ad aspettare che esca la sua terza produzione.
Eva dorme
La questione altoatesina è sfondo e trama del suo romanzo d’esordio che è anche una storia d’amore.
Le vicende dell’AltoAdige sono gestite in modo asciutto e storicamente contestualizzato, per dar risalto a fatti che han segnato quell’Italia poco italiana. Due donne si raccontano – Eva, altoatesina moderna , con la sua vita altrove; Gerda, la madre, la cui vita si spende tutta nelle tradizioni di un mondo che va sbiadendo. L’amore appare, ma non è cosa facile, e il senso della perdita, della nostalgia è narrato con forte impatto emotivo.
Lo si legge e vien voglia di un viaggio, per vedere o rivedere con altri occhi questi mondi di confine dove
“ I pendii tutt’intorno sono coperti da larici, abeti e betulle, boschi fitti, ma che non incombono sulle attività umane del fondovalle; sembrano quasi incorniciare con la loro natura impenetrabile la civiltà del lavoro..” e cogliere il senso del perché l’italiano resti caparbiamente lingua straniera.
Più alto del mare
Ambientato nell’isola resa carcere di massima sicurezza negli anni 70.
Delicato e quasi lirico. Due protagonisti silenziosi, dignitosi nel loro dolore, Luisa e Paolo, si conoscono in quanto visitatori del carcere, rispettivamente per il marito ed il figlio lì rinchiusi. Gli intensi profumi e colori del Mediterraneo a sfondo delle vicende che avvicineranno i protagonisti.
Due libri molto diversi, che hanno in comune tratti di sofferenza di singoli personaggi, elevati a testimonianza di un malessere corale in eventi in certo modo collegati sul tema del terrorismo in Italia.
Una lettura intensa, coinvolgente, che lascia a occhi bassi fino alle ultime righe. Ed un’eco che dura dentro.
Chiunque coltivi, me compresa, velleità da scrittore/scrittrice farebbe bene a leggere - e a rileggere -periodicamente qualche capolavoro per capire che cosa è la letteratura rispetto a ciò vorrebbe esserlo ma non lo è. Ma anche chi si definisce semplicemente “lettore” dovrebbe fare questo esercizio regolarmente, che poi, più che esercizio, è un piacere. Leggere cioè in modo consapevole, assaporando le emozioni ma andando anche oltre. E chiedendosi, letta l'ultima riga, che cosa resta. Ho fatto questo “esercizio” in questi giorni, sia come lettrice che come autrice, riprendendo in mano Cent'anni di solitudine dopo una serie di romanzetti mediocri letti più che altro per dovere e necessità. Il romanzo di Gabriel García Marquez è un classico per la nostra generazione (venne pubblicato nel 1967); l'abbiamo letto in un'età in cui eravamo voraci di tutto ma forse non ancora pronti ad apprezzarne la portata e la grandiosità. Sin dalle prime pagine, la letteratura nelle sue vesti migliori viene incontro al lettore, o meglio lo travolge. Maestosa, immaginifica, spudorata nella forma e nella sostanza. Cent'anni di solitudine è indifferente a tecniche narrative e regole, è indifferente alla stessa plausibilità della trama. Lo ispirano una visionarietà e una purezza d'ispirazione davvero rari.
Non a caso per Gabriel García Marquez si parla di “realismo magico”. I diversi piani, nelle sue opere, e in particolare in Cent'anni, si confondono senza pregiudicare un equilibrio narrativo che tiene dall'inizio alla fine. Realtà, sogno, incubo, inconscio, tutto convive nel magma di questa storia. La saga dei Buendía si svolge in un luogo immaginario, la mitica Macondo. Non si sa bene quando. I personaggi, anche quelli minori, alcuni dei quali inverosimili, sono sempre indimenticabili. A partire da Ursula, figura femminile che tiene le redini della casa e del romanzo. Insomma, leggetelo, o rileggetelo. Ne vale davvero la pena.
In memoria di “Gabo”, recentemente scomparso, lasciamo vibrare la potenza dell’incipitdi Cent'anni:
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».
Un libro pescato dallo scaffale Sopra60 che esordisce con un titolo intrigante, Livelli di vita. Un volume sottile, per numero di pagine, stile e contenuti.
Filo conduttore, il lutto dell'autore, Julian Barnes, vedovo disperato e imbufalito con la vita.
Basterebbe questo a farti dire “no grazie”? O a farti pronunciare la frase «niente roba triste, voglio ridere»” che molte volpi argentate dedite alla rimozione ripetono come un mantra? E ridi, ridi pure se pensi ti serva. Ma aspetta un attimo a scartare. Questo non è soltanto un libro sul lutto: è anche un libro sull'amore.
Né romanzo né saggio, esordisce raccontando storie di pionieri del volo e di mongolfiere che decollano senza che si possa prevedere dove le spingerà il vento e dove potranno atterrare. Non è affatto chiaro, quando si comincia a leggere, che cosa c'entrino queste prime pagine affascinanti e coinvolgenti con il lutto e la perdita e dove vogliono condurre. Ma si resta incantati a mano a mano che la metafora si palesa.
Volare vuol dire superare barriere, guardare dall'alto, rischiare, cadere rovinosamente. Non è forse la stessa cosa amare senza riserve? Dal lungo prologo si arriva al nucleo del libro passando attraverso una rapida inversione di rotta dall'impersonale al personale, dalla digressione alla confessione, dal racconto alla testimonianza. Irrompono il lutto e il dolore di Julian Barnes. La non possibile condivisione di una forma estrema di dolore. L'insofferenza per le pratiche consolatorie. Ci si cala con Barnes in quel suo pozzo, immaginando, quasi desiderando come lui, che ogni luce si spenga. Ma ecco vibrare nel buio un senso di attesa. Lo si avverte anche se debole. È l'attesa del vento in grado di riportare in quota.
L'ingegnere e fecondo scrittore Roberto Vacca, classe 1927, continua a scrivere, interviene a trasmissioni televisive e comunica slancio vitale. Elargisce consigli sull'invecchiamento in tono divulgativo e appassionato. Ragiona su algoritmi e sulla "questione vitale della qualità", sul senso del tempo e su come aiutarsi a riempirlo bene. Pensieri e consigli in estensione, che spaziano liberi in vari ambiti.
Con fervore pone l'accento sul valore aggiunto del computer per chi, in età avanzata, accetta di prenderci confidenza, arrivando a integrare le esperienze passate con le innovazioni.
Con entusiasmo verso la vita, invita a cercare di capire sempre di più; un messaggio e uno stimolo racchiusi in questa sua dichiarazione: «a 89 anni vivo in un mondo più amichevole, efficiente, scattante, vivo e variopinto».
La vita come una canzone , forse questo il nocciolo di ‘Essere vivi’.
Romanzo breve, asciutto, profondo, facile nella scrittura pulita ed essenziale, complesso per la profondità a cui arriva nello scandagliare la vita. La Comencini ancora una volta percorre le strade dell’introspezione, con una narrazione delicata, eppure intensa, difficile e talvolta dura.
Caterina e Daniele, entrambi sposati e con figli, si conoscono in Grecia quando vengono chiamati per il riconoscimento di due amanti suicidi, la madre di Caterina ed il padre di Daniele. Pochi giorni, pagine brevi per un lungo percorso che vuole far luce sulla propria incompiutezza e l’inevitabile infelicità , l’uno specchio per l’altro, ma anche per il lettore che vuole ‘afferrare se stesso’.
Figura minore, appena abbozzata, un anziano signore greco che è sopravvissuto agli orrori dell’internamento ai tempi dei colonnelli. Un momento essenziale di luce per capire il senso della vita, il senso della propria canzone.
Gli editori italiani non si sono battuti, a suon di anticipi e colpi bassi, per assicurarsi i diritti di un'autrice considerata ormai un classico, e non solo nel suo Paese. Stiamo parlando di Annie Ernaux. A pubblicare i suoi libri in Italia è la piccola e raffinata casa editrice L'Orma.Ma forse non è così strano: i primi posti nelle classifiche delle vendite e la qualità sono inversamente proporzionali. Tranne qualche eccezione, restano i piccoli editori a tenere alto il tiro.
Le opere di Annie Ernaux,sono state raccolte e pubblicate in Francia da Gallimard.
In Italia, l'Orma ha pubblicato Il Posto, e recentemente Gli anni, il suo testo più famoso e premiato.
Si tratta di un romanzo della memoria; tutte le opere della Ernaux sono legate alla sua biografia ma Gli anni è il più compiuto in questo senso. Il racconto abbraccia tutta la sua vita, ripercorrendola dall'infanzia alla vecchiaia, e arrivando a disegnare un potente e convincente quadro d'insieme. Srotolando, con una lingua impeccabile, precisa e insieme poetica, una storia personale, Ernaux racconta la Francia della sua generazione.
E' un lavoro introspettivo che deve tenere a bada le trappole della memoria; ma la Ernaux non perde mai la rotta, usa la terza persona e l'imperfetto per tenere le distanze.
Nonostante ciò, o forse proprio per questo, riesce ad offrirci pagine profonde, emozionanti, a tratti commoventi, che lasciano vagamente stordito soprattutto chi, il tempo che lei mirabilmente racconta, lo ha attraversato e lo osserva allontanarsi.
“Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla memoria”, così scrive Ernaux.
Ragazze, un nuovo giallo bello corposo, per di più di Isabel Allende… promette bene.E non mantiene.Il plot è semplicino, adatto ai ragazzini che, nel loro role game, intuiscono e capiscono e scovano piste che gli adulti, professionisti dell’indagine ma piuttosto giuggioloni, non mettono a fuoco. Il serial killer esibisce una psicosi da minimo sindacale. Le sue azioni i suoi processi mentali e sono lineari e ovvi. Mancano del tutto quegli aspetti contorti della personalità, quelle profondità simboliche che generano nel lettore attrazione e ripulsa. Un killer da terza elementare, insomma, che un lettore di gialli un minimo scaltrito individua a metà della lettura.
Massima è la delusione che suscitano i personaggi. Non posso credere che Isabel Allende, creatrice di straordinarie figure femminili come Eva Luna o come Clara, Blanca e Alba ne La casa degli spiriti, abbia prodotto la protagonista, Indiana. Una bionda, curvy oca new age, buona, generosa, ingenua, anzi, tonta. Uno di quei personaggi che riescono a irritare dalla prima pagina all’ultima. Caldamente sconsigliato a quelle che normalmente apprezzano la Allende.
Non è' il tipo di lettura proprio da tempo libero, ma neppure il manuale da mettere nello scaffale accanto al libro di giardinaggio e ai ricettari di cucina. In teoria non dovrebbe interessare a chi rassetta per sua inclinazione, come neppure a chi si ritiene un caso disperato. Il successo da due milioni di copie di questa giovane e linda giapponese, per un tema che non suscita particolare simpatia, è valso come ragione di lettura che si rivelerà' a più' livelli, tutti accessibili e immediati. A far presa è la modalità di porre il messaggio e ne spiega il successo.
Mentre si raccolgono consigli e suggestioni sul come facilitarsi la vita con il riordino, si familiarizza con una filosofia del quotidiano che appare subito accattivante. Ricorrono ripetutamente termini come felicità, emozioni, valori, ma immersi nel contesto delle piccole cose di tutti i giorni: "riordinare è quella magia che ridesta la vostra esistenza e la rende viva". Sembra di entrare in un luogo di culto Zen e inavvertitamente inizia un viaggio di introspezione, facilitato dalla semplicità' del linguaggio, dal frasare lineare, almeno nella traduzione italiana e
dalla ripetitività di concetti, un po' eccessiva per noi occidentali abituati alla rapidita'. Si, val bene questo minimo investimento di tempo, anche per una lettura interpretativa dei bisogni a cui Konmari, come ama farsi chiamare, sembra dare risposte convincenti. Resta, pero', un punto cruciale, perche' col riordino viene resettato il senso del tempo. Le testimonianze della storia, della propria storia, sarebbero drasticamente da ridurre, come pure il senso del futuro che e' implicito nell' interrogativo : "e se mi dovesse servire?", che ci poniamo nel conservare oggetti e indumenti. Cosi' si andrebbe dritti al fine, il raggiungimento della felicita'.
L'appiattimento temporale della vita nel modulo unico del presente,un tema su cui non saremo d'accordo, ma intanto ci pone allo specchio. Insomma, c'e' tanto di noi in questo testo che sorprende e intriga.
Elena Ferrante è lo pseudonimo di una scrittrice che usa l'anonimato da più di vent'anni e che si è imposta all'attenzione del grande pubblico e della critica soprattutto con il ciclo de L'amica geniale, un romanzo-saga o, se vogliamo usare subito la clava, una soap di qualità in quattro volumi che racconta la vita di due amiche-nemiche, Lila e Lenù. Due profili opposti e conflittuali ma complementari, entrambi molto ben disegnati e raccontati. Una guerra tra donne che dura un'intera vita. Napoli è sempre sullo sfondo, in un alternarsi di contrasti che non possono essere solo frutto di abile finzione. Indizio questo che ci spinge a dire che l'autrice è napoletana. Il secondo indizio, per la dovizia di particolari di tipo storico e generazionale che può conoscere solo chi ha vissuti certi anni “da dentro”, è che ha almeno sessant’anni.
Un dato curioso: la napoletanità (e quindi folklore e stereotipo, inutile negarlo), unita alla capacità di racconto e ad abili strategie di marketing, ha creato un “fenomeno Ferrante” negli schizzinosi Stati Uniti, dove la scrittrice è molto conosciuta e apprezzata. Al punto che l'autorevole rivista Foreign Policy l'ha inserita tra i primi cento global thinker nella categoria chronicler.Altro quesito per definire l'identikit: Ferrante è uomo o donna? Svariate le ipotesi che sono circolate in questi anni: una è quella che indica Domenico Starnone, Goffredo Fofi o sua moglie, Francesco Piccolo, un team creato dal suo raffinato editore italiano e/o di proprietà della famiglia Ferri.
Chi scrive propende per l'ipotesi donna, anche se è forte la tentazione dell'ipotesi “team” per una ragione tecnica. Per produrre un buon romanzo occorrono molto tempo e molte stesure. I quattro volumi della saga, usciti a distanza di un anno uno dall'altro, sono tra l'altro molto corposi: alcuni superano le 400 pagine. Davvero un'impresa per un essere umano pur dotato di grande forza fisica, velocità di scrittura e talento. A meno che l'autrice li avesse scritti in precedenza e tenuti nel cassetto.
Le interviste che Ferrante ha rilasciato (rispondendo a domande scritte) tenderebbero a far escludere l'ipotesi team. Sembra nascondersi dietro lo pseudonimo una persona “coltivata” e con le idee molto chiare sulla letteratura e sull'editoria in genere. Se anche tutto questo, cioè il gioco domande-risposte, è marketing, chapeau!Ma alla fine che importa sapere chi è davvero Elena Ferrante? In letteratura la valutazione va data sui libri non sugli autori, e i libri di Ferrante sono indubbiamente di buon livello. Non solo sono avvincenti nonostante la mole, il che di per sé non è sufficiente per fare di un romanzo un romanzo memorabile. Il plot, ingrediente principe anche delle soap, da solo non basta ai palati raffinati.
Nei romanzi di Ferrante c'è di più: capacità di racconto, scorrevolezza e profondità, grande abilità nella costruzione dei personaggi e nel muoverli sulla scena, credibilità.
Da qui a dire che siamo di fronte a letteratura “alta” ce ne passa. Si pensi, a titolo di paragone, a Elsa Morante che è tra le autrici più amate di Ferrante e alla quale sembra ispirarsi anche nel suo lavoro.
Riprendere tra le mani un buon romanzo, anche se lo si è già letto decenni prima (è questo il caso), fa comunque bene al cuore. Fa bene al cuore, tra le tante novità mediocri in circolazione presentate come capolavori, tornare a sentire il profumo della letteratura. Quella vera. Ne Il prete bello questo profumo c'è.
Ed è molto intenso. Il prete bello è un romanzo di Goffredo Parise pubblicato nel 1954. Ambientato nell'italietta fascista degli anni '40, in un quartiere popolare di Vicenza (o più precisamente all'interno di un fatiscente, enorme palazzo con cortile su cui si affacciano vite miserande), è una storia picaresca con il retrogusto della fiaba amara. Colui che dà titolo al romanzo, cioè il “prete bello” don Gastone Caoduro, non ne è il protagonista ma un personaggio fisso, lo stereotipo del fascista assoluto, intorno al quale si dipana la storia. Il prete bello è una sorta di albero della cuccagna ambito da tutte le livide zitelle del palazzo, bersaglio dell'autore, insieme ad altri personaggi minori, per stigmatizzare i difetti e la ridicolaggine del regime.
Protagonisti sono, in realtà, due ragazzini: Sergio, la voce narrante, e Cena. Costantemente affamati, infreddoliti, affogati in una miseria senza via d'uscita, eppure sognatori, leali nella loro amicizia più forte dei vincoli di sangue. Scaltri e spregiudicati nella loro innocenza, eppure capaci di amare la bellezza, sia essa incarnata da una bicicletta Bianchi fiammante o dalla pelle rosata della prostituta Fedora.
Disincanto e poesia si fondono meravigliosamente nella lingua di Parise, risultato di un grande talento e di un grande mestiere. Dopo Il Prete Bello è d'obbligo attaccare i Sillabari.
Chi ha superato i Sessanta e non ha ancora letto questo libro deve affrettarsi a colmare la lacuna. L'approccio di Hillman è molto attuale anche se il libro fu pubblicato nel 1999 (e quindi scritto in anni precedenti). Nel frattempo il fenomeno dei “nuovi vecchi” è esploso ma purtroppo si continua a trattarlo come fenomeno “di mercato” e la vecchiaia continua a essere considerata un disvalore, quasi una vergogna da celare.
Hillman fa un lavoro accurato entrando nell'argomento con una prima indicazione: distinguere l'invecchiamento dal processo fisiologico di decadenza del corpo. Il che vuol dire impegnarsi per fare della nostra vecchiaia una “struttura estetica” potente e memorabile, leggere i fenomeni che l'accompagnano non come indizi della fine ma come iniziazioni ad un'altra modalità di vita.
Un saggio che sgombra il campo dalle banalità correnti sul tenersi in forma e sul “durare” e che aiuta a scoprire nella vecchiaia l'espressione dell'intelligenza profonda della vita, esattamente come la crescita durante la giovinezza. Nuove facoltà si affinano, mettendosi al servizio di questa fase dell'esistenza, compresa la memoria del passato che prende il sopravvento su quella a breve termine.
Seneca scriveva: «La vita, se sai usarla, è lunga». Se sai usarla, appunto. Il quarantaseienne Kennedy Marr, irlandese irascibile trapiantato a Los Angeles, scrittore e sceneggiatore di successo, non la sa proprio usare. Troppi soldi troppo presto. La sua vita rotola via tra abiti e scarpe costosi, ristoranti di lusso, grandi alberghi. E alcol, e sesso. Tanto di entrambi. Due ex mogli e una figlia, un fratello assennato, una sorella suicida, una madre morente non hanno il potere di distoglierlo da uno stile di vita che divora cose e persone, da un consumo sfrenato di cui il protagonista è attore e vittima. Kennedy vive anestetizzato dalla sbronza perenne, dal suo smodato egocentrismo, dal richiamo irresistibile di donne bellissime e disponibili. Finché qualcosa si rompe.
Indebitato col fisco, per ragioni indipendenti dalla sua volontà (contro le quali, peraltro, lotta strenuamente) si ritrova catapultato indietro, nell’Inghilterra in cui ha studiato e ottenuto il successo che lo ha consacrato. Si ritrova troppo vicino ai suoi affetti e ai suoi sensi di colpa.
Kennedy è un personaggio irritante. Acuto, colto fino a essere saccente, si comporta però come un perfetto idiota, infantile e privo del minimo senso di responsabilità. Lo salva il fatto che l’autore non lo prende troppo sul serio e nemmeno lui stesso. L’ironia e l’eccesso sono la cifra del personaggio e anche della prosa di Niven, leggera, sboccata e piena di inventiva.
A tutta prima, Maschio bianco etero parrebbe un romanzo sul feticismo maschilista, sulla demolizione del mito dello sciupafemmine. Invece, il vero tema conduttore è quello del sensus finis, con cui, a dispetto della sua vita gaudente, il protagonista deve misurarsi. Il suo narcisismo non lo mette al riparo: dovrà anche lui tirare le somme della sua personale “tabella del dolore”. Dovrà tornare indietro fino al punto in cui la sua vita è deragliata. Sentirà il bisogno di pagare le sue “offese contro l’amore”. Un bel romanzo sull’arte di chiudere con la giovinezza e di accettare positivamente lo scorrere del tempo.
In concorso al Festival di Berlino la versione cinematografica di La vergine giurata, romanzo di Elvira Dones, scrittrice, sceneggiatrice e giornalista albanese che vive in America.
Un passo indietro: La legge del Kanun, di antichissima usanza nei paesi balcanici e in particolare nel nord dell'Albania, “concede” alle donne in condizioni di necessità di assumere vesti e vita da uomo. Per sempre, in modo irreversibile e dopo aver prestato giuramento di verginità permanente. Sotto spoglie maschili, la vita è almeno resa sicura.Il romanzo narra e testimonia una di queste vite, tra gli ultimi casi ancora esistenti. L'accompagna fino all'happy end che avverrà in America. Perché Hana scambia la sua femminilità e le sue aspirazioni di donna con la libertà di muoversi e non accetta la protezione di un uomo che non desidera sposare.
Per solidarietà familiare, volendo assistere lo zio ammalato che l'ha cresciuta alla morte dei suoi genitori, lascia l'università e Tirana. Ritorna nel nord dell'Albania e fa la “scelta” di diventare una vergine giurata. Pian piano si fa uomo. La donna che è stata, rimane, rimpicciolita e rannicchiata in se stessa. E tenta di rialzarsi alla morte dello zio. Aiutata dai parenti d'America, non le resta che andar via, per riconquistarsi, molto faticosamente.
Scritto in italiano, una narrazione piana ma agile, intrigante e assurda, se non sapessimo che è storia vera. Non si concede al pietismo, rilancia il tema delle differenze di genere e lascia spazio al lettore di cogliere più in profondità. Un romanzo sottile, che riesce a non appesantire a dispetto della realtà che narra.
Da leggere e il film diventerà più corposo.
«Mai dunque si potrà lodare abbastanza degnamente la filosofia: chi ad essa si conforma può trascorrere senza affanno ogni età della vita». Così dichiara Cicerone nel De Senectute.
Citato ancora dalla saggistica contemporanea, resta un testo fondamentale che sorprende per semplicità e profondità. Del resto la chiarezza è attributo dei veri grandi, come la resistenza del loro pensiero all'usura del tempo. Lasciarsi prendere dalla sua lettura sprigionerà una serie di inevitabili riflessioni, a incredibile conferma della solidità di questo ponte tra il nostro oggi e il suo tempo antico. L'operetta si sviluppa come una conversazione tra l'anziano Catone, Gaio Lelio Minore e Scipione Emiliano. Di molto più giovani, Lelio e Scipione esprimono stupore per la serenità con cui Catone vive la vecchiaia, chiedendo di imparare il percorso che anch'essi sperano di intraprendere. Cicerone riconosce la propria saggezza come capacità “a seguire la natura”, non potendo a questa opporsi. E lascia un tracciato propositivo a chi si trova ad affrontare questo tratto di strada che riserva insidie, ma anche tante sorprese. In questo modo Cicerone ci parla sì di età, ma, nel contempo, di quale ricchezza si celi nella relazione tra la temerarietà dei giovani e la saggezza degli anziani.
Questo piccolo, consistente testo è un dono di Rita Levi Montalcini a noi che siamo sulla soglia della terza età o che l'abbiamo varcata. Certo, alcuni passaggi non sono pane quotidiano per molte di noi, ma la sua lettura ci arricchisce in una fase della vita a cui il premio Nobel - a 89 anni - dedica il suo saggio.
Con entusiasmo e ottimismo ragionato, sostenuto scientificamente, Rita Levi Montalcini rigetta gli stereotipi che vogliono la vecchiaia come malinconico declino per degrado fisico e mentale. La conoscenza dei meccanismi operativi del cervello è la carta vincente in possesso di ogni individuo per la salvaguardia del proprio benessere ed è da considerare di vitale importanza per la fase finale della vita.
L’autrice prende in esame esempi significativi di menti ancora egregie in tarda età e, tra queste, Bertrand Russell appare particolarmente significativo.
La parte scientifica del testo, quand’anche se non pienamente compresa, opera generando ottimismo perché ci resterà ben chiaro il concetto di fondo, che il cervello difende le sue riserve e ne crea di nuove, a condizione che si viva una vita ricca di stimoli.
Questo l'asso nella manica, questa la sfida con noi stessi, questo il vincere sulle perdite inevitabili dell'età.
La manica è a brandelli, a meno che, riprendendo i bei versi di Yeats cui si ispira, «...a meno che l'anima non batta le mani e canti, e canti sempre più forte, per ogni brandello del suo abito mortale».
In altre traduzioni italiane non è la manica a brandelli, ma il cappotto a esser logoro, più corrispondente al sentito tattered coat. L'idea resta comunque solida.
Il saggio riporta una dedica alla gemella Paola, anche in quanto pittrice, perché la creatività è una risorsa e, nel senso più ampio del termine, è a disposizione di tutti.
Piccoli esperimenti di felicità è il titolo che nella traduzione italiana interpreta il senso di questo romanzo autobiografico.Hendrik Groen ha 83 anni e un quarto, vive in una casa protetta in Olanda e decide di scrivere un diario per un anno intero. Nel corso dell'anno vuole tentare di fare qualcosa della sua vita - come spiega più prosaicamente il titolo originale - e non limitarsi a tirare avanti, giorno dopo giorno. A fine anno deciderà se scegliere ancora la vita o assumere la pillola della buona morte che ha chiesto al proprio medico.Mite ma anche caparbio, solo, per aver perso la figlia molto precocemente e per l'Alzheimer che ha colpito la moglie ricoverata e distante in ogni senso, Hendrik non manca di fiducia e capacità di migliorarsi la vita. Le giornate raccontano la cerchia di amici, il club dei “vecchi ma non ancora morti”, le relazioni con i residenti della casa e con l'austera direttrice, i momenti di piacere e i conti con le regole, ma anche con i soldi da gestire che contribuiscono, eccome, a rendere felici. E ancora, i tentativi di cambiare molte cose, il successo di piccoli passi e tanta vivacità esistenziale che aiuta l'ottimismo.Una lettura che non ci risparmia i lati fragili dell'età, mantenendo il senso realistico e descrittivo degli aspetti duri e ineluttabili dell'essere vecchi. Pur non regalando false illusioni, riesce a trasmettere la poesia della speranza. Contagia con la simpatia del personaggio, creando un'abitudine a “fargli visita”, ogni volta che si riapre il libro. Ma l'anno biografico finisce e Hendrik ci lascia, con la delusione di non avere una proroga nell'accompagnarci a lui.Resta qualche dubbio. Che sia una riuscita intenzione editoriale, non solo un caso reale?
Alla lettura di un libro che parla di organi e corpi in senso clinico, si può essere mossi da interesse, curiosità, coinvolgimento o da altro ancora, secondo il sentire di ciascuno. Ma una ragione per parlarne tutti insieme è certamente la scrittura, che lo rende un romanzo riuscito.
Gli organi di un giovane, Simon Limbres, vengono donati per far vivere altre persone. La scrittrice francese, che al suo paese ha già avuto importanti riconoscimenti, parte dalle circostanze della morte del diciannovenne Simon e con mano rapida delinea i tratti della bella gioventù che si stronca. Un frasare ricco che monta veloce, che non ci lascia il tempo di risentirne emotivamente. E siamo subito oltre, portati a incontrare il chirurgo e l'infermiere coordinatore, con dettagli della loro giornata straordinaria, nel suo normale svolgimento. Poi c'è una madre; cogliamo come la sua vita vada in apnea, poche parole e tutto è detto «... come se fosse già un'altra donna, un pezzo bello grosso, ancora caldo, compatto, si stacca dal presente per colare a picco in un tempo passato…». Quando sulla scena del dolore appare anche il padre, assistiamo a un fluttuare di emozioni, di umana fragilità che si fa forza, un susseguirsi di volti tirati, di persone coinvolte per ragioni personali o professionali.Le varie fasi si succedono con precisione di linguaggio, dalla decisione della donazione all'espianto e impianto degli organi, col cuore che sarà destinato a Claire, una cinquantenne la cui vita sospesa conosce profonda solitudine, forte determinazione, vacilla nell'attesa ed esulta incredula alla dichiarazione di compatibilità con il donatore. Pronta a rinascere.Leggiamo, seguiamo a distanza. Ma c'è poco da fare, è storia di vita e il “noi” collettivo ci sta tutto. In fondo, questo è il senso del romanzo: ci fa avvicinare con cautela, diventa alla fine quasi catartico, ne usciamo con meno paura, più informazione. Una lettura intensa, da completare con le interviste rilasciate da Maylis de Kerangal.
John Updike non ce l'ha fatta prendere il Nobel che avrebbe meritato. La sua morte, avvenuta nel 2009, ha lasciato orfani molti updikiani convinti che lo considerano, non a torto, uno dei più grandi scrittori americani.
Updike ha prodotto molto, ma i romanzi più celebri sono quelli appartenenti alla celebre serie del Coniglio, un grande affresco dell'America del Novecento raccontata attraverso la vita ordinaria di Harry Angstrom.
In Sei ricco, Coniglio, il terzo romanzo della serie (la tetralogia si concluderà con Riposa Coniglio, a parere di molti il più incisivo dei quattro), il protagonista Harry Angstrom è ormai un uomo di mezza età. Il suocero Fred Springer è morto e Harry, per anni semplice venditore assunto per il solo fatto di aver sposato l'unica figlia di Fred, Janice, ha finalmente ottenuto il suo spazio nel concessionario di auto Springer Motors. Il ruolo di direttore e responsabile vendite del concessionario lo gratifica enormemente: Harry è un americano medio, ha degli obiettivi molto limitati.
Siamo alla fine degli anni Settanta, presidenza Carter, l'inflazione galoppa, c'è odore di crisi e un clima di tensioni politiche internazionali, ma Angstrom è totalmente appagato dal suo nuovo status: gioca a golf, investe in oro, beve come una spugna e quando può cornifica la moglie o sogna di farlo. Adora i soldi e cerca di accumularne sempre di più.
E non c'è nella sua esistenza un risvolto della medaglia, un ripensamento o la consapevolezza che esiste dell'altro. Non c'è capacità di analisi di sentimenti ed emozioni che gli consenta di vedere e capire gli errori della sua vita. Solo qualche intuizione ogni tanto, una sorta di malinconia serpeggiante, la mancanza di qualcosa di imprecisato.
Eppure Harry non è un cretino, e neppure un odioso e cinico bastardo. E' solo un uomo mediocre e senza ali, che scappa all'occorrenza come un coniglio, che è di fondo un coniglio ma che riesce a risultare tenero nei suoi limiti, e a cui il lettore alla fine si affeziona per una sorta di “riconoscimento” che produce assoluzione.
Straordinaria la capacità di Updike di raccontare una “piccola storia” facendone il paradigma di una storia di grande respiro, quella di una nazione letta attraverso l'ordinarietà, i tic, i vizi degli individui comuni. Un libro davvero grande.
Piersandro Pallavicini esperto di nanochimica inorganica e docente universitario ci ha abituati a romanzi esilaranti. Con Una Commedia Italiana non si smentisce. Ci conduce per mano in una storia in cui anche i risvolti drammatici diventano comici e in cui convivono, in un perfetto equilibrio narrativo, spezzoni di vita privata e piccoli affreschi della società italiana, partendo dagli anni Sessanta e percorrendo tutta la china (ahimé) sino ai giorni nostri. Sia chiaro: non stiamo parlando di alta letteratura ma di un divertente romanzo d'evasione scritto con grande brio e intelligenza. L'Io narrante è la professoressa Carla Pampaloni Scotti, cinquantenne con le sembianze di Ave Ninchi, espressione della borghesia milanese dei parvenus ma salva dai difetti della categoria.
Donna colta e di spirito, madre di un adolescente sfuggente e moglie di un fisico geniale ma perso dietro le sue ricerche, si ritrova alle prese con le caldane e un padre molto anziano, ex imprenditore di successo nel settore dei formaggi, in fase di inevitabile declino. Vecchio molto acuto ma molesto e amante degli scherzi di cattivo gusto. La trama ha risvolti “gialli”: sono in gioco interessi, eredità, sentimenti meschini all'interno di un contesto in cui nessuno sa esattamente cosa vuole, tranne i soldi, e dove si salvano solo le persone capaci di prendere la vita sorridendo con intelligenza. In realtà, leggendo, non si sorride ma si ride di gusto.Scelta ideale, quindi, questa Commedia Italiana, per letture sotto l'ombrellone o sotto le fronde di un albero, o spaparanzati sul divano se fuori piove. Un solo appunto: come già in Romanzo per signora, Pallavicini qualche volta manca del senso del limite. Nel finale tende a scivolare nel grottesco, calca un po' troppo la mano e ciò non giova all'economia delle sue storie.
Detesto i manuali. E i loro improbabili autori che sanno sempre cosa fare, e come farlo. Ma per questo libro faccio un'eccezione. Forse perché ho la stessa età dell'autrice, e le domande che si pone e le risposte che si dà riguardo al giro di boa dei Cinquantanni, sono i miei.
Parlo di Cinquanta Special di Patrizia Varetto, pubblicato da Mondadori. Ve lo consiglio anche se avete meno di Cinquantanni (così vi portate avanti con i lavori) ma anche se ne avete di più e non sapete rassegnarvi davanti allo specchio. Il sottotitolo, che recita Manuale di resistenza per Cinquantenni (e oltre), ci introduce in quell’esperimento sociologico, antropologico e psicologico che sono le donne over 50 di oggi. Pioniere di un’età tutta da inventare, che non può servirsi degli schemi e dei comportamenti tramandati dalle madri, queste donne sono vive, attive, piene di curiosità e di saperi. Ma anche alle prese con trasformazioni, adattamenti, inevitabili riposizionamenti. Le “istruzioni per l’uso” di Patrizia Varetto spaziano attraverso molti “settori sensibili”: abbigliamento, bellezza, attività fisica ma anche way of life, relazioni, stati d’animo. Un prezioso vademecum, ricco di suggerimenti ma anche di garbate dissuasioni su tutto quello che l’età rende ridicolo, imbarazzante e fuori luogo. Un manuale certamente utile, ma non solo. Cinquanta Special è anche una lettura estremamente gradevole. Patrizia Varetto sa giocare con la scrittura. Si spinge fino al bordo della pedanteria didascalica per poi virare bruscamente nell’umorismo. Impartisce rigide istruzioni da signorina Rottermeier ma finisce per rilassarsi in uno piccolo sberleffo anarchico. La sua scrittura è un ottovolante di toni seriosi e leggerezza mai superficiale, di sense of humour sempre elegante e misurato.
Pubblicato per la prima volta negli Usa nel 1965, Stoner passò pressoché inosservato.
Nel 2003 venne ristampato dalla NewYork Review Books divenendo in breve un caso letterario grazie al passaparola tra lettori raffinati e alle entusiastiche critiche di alcuni importanti scrittori, tra i quali Peter Cameron (che firma la postfazione), Jan Mc Ewan e Bret Easton Ellis, che lo hanno definito un capolavoro.
Forse questa valutazione è eccessiva, ma sicuramente Stoner è bel libro.
Vediamo perché. Intanto, per inquadrare il genere, diciamo che si tratta di un romanzo di formazione con un ottimo livello di scrittura. Uno stile molto pacato e capace – nella parsimonia delle parole – di scendere in profondità nell'animo del protagonista, Stoner appunto, oscuro professore che per tutta la vita insegna in un’università del Minnesota.
Stoner vive in una condizione di anaffettività, di repressione dei sensi, di piattume esistenziale da cui solo la passione per lo studio e l'insegnamento lo distolgono. Nessun picco nella sua vita, tranne l'amore ricambiato per un'allieva brillante, amore che però soccombe alle regole sociali. Perché mai nel corso della sua vita Stoner si rivolta, ha un'impennata.
Una trama inesistente, o addirittura respingente, si potrebbe pensare. Colpi di scena non ce ne sono, eppure con questo materiale all'apparenza piatto, John Williams, anch'egli professore per tutta la vita in un’università del Colorado (il sospetto di riferimenti autobiografici è legittimo e forte, tra l'altro Stoner si chiama William), riesce a confezionare un romanzo che tiene il lettore attaccato alla pagina fino alla fine e lo spinge a condividere la vita Stoner parteggiando per lui. Parteggiare per Stoner è parteggiare per se stessi e per il riscatto delle nostre esistenze. E' questo in fondo il miracolo del romanzo. Con sensibilità e insieme durezza Williams ci conduce nei labirinti delle nostre vite che corrono parallele a quella di Stoner.
Come ha scritto Peter Cameron, Stoner è un romanzo di dettagli che messi insieme compongono un puzzle appassionante. Da leggere!
Intendiamoci, Viviane Elisabeth Fauville non è un capolavoro. È l’opera di un’esordiente e, come tutte le opere prime, si presenta incerta e ricca di stimoli. Apparentemente la trama si ascrive al genere noir. Viviane, la protagonista, così si presenta: «Ti chiami Viviane Elisabeth Fauville, in Hermant. Hai quarantadue anni e il 23 agosto hai dato alla luce la tua prima figlia… Sei la responsabile della comunicazione della Bétons Biron, un’azienda con un alto fatturato… Tuo marito Julien Antoine Hermant, ingegnere del genio civile, è nato a Nevers quarantatrè anni fa. È stato lui, il 30 settembre, a mettere fine a due anni di incubo coniugale… Il 15 ottobre hai traslocato, hai prolungato il congedo di maternità e lunedì 16 novembre, ovvero ieri, hai ucciso il tuo psicoanalista. Non l’hai ucciso simbolicamente, come a volte si arriva ad uccidere il padre. L’hai ucciso con un coltello Zwilling J. A. Henckels, collezione Twin Profection, modello Santoku». A partire da questa prima descrizione, il romanzo si dipana parallelamente in una ricognizione della vita privata dell’analista, moglie e giovane amante incinta, e in una discesa nella confusione psicotica. Il finale, a sorpresa, ovviamente non lo sveliamo. Viviane, che alterna continuamente il secondo nome Elisabeth, suo vero alter ego, è una donna fragile, ha appena perso la madre, soffre di attacchi di panico che l’hanno portata in analisi. Quest’equilibrio precario conflagra sotto i colpi di una doppia crisi: l’abbandono del marito e le difficoltà del post-partum («Ci ritroviamo con questa bambina in braccio e ci chiediamo da dove sia spuntata… A volte lei ci guarda come se ci conoscesse da sempre, e allora pensiamo che ci abbia scambiato per qualcun’altra. Oppure siamo noi a non essere quelle che crediamo… Ignoriamo da dove venga questa creatura che sul nostro conto ha l’aria di saperne molto di più di quanto noi potremo mai immaginare, e che al tempo stesso sembra affidarsi completamente alle nostre cure. Dobbiamo rispondere ai suoi vocalizzi per tenere viva l’illusione di familiarità, ed è lei che ci guida, che dà forma alla nostra conversazione, che fa di tutto per costruire questo legame così incerto»). La vediamo con gli scatoloni aperti di un trasloco appena fatto in una casa di periferia, una neonata di dodici settimane in braccio e una grande confusione. La memoria si trasforma in un buco nero, in cui si agitano sprazzi di ricordi. Lo psicoanalista da cui è in cura, non riesce ad aiutarla, anzi la irrita col suo sorrisetto. «Se si fosse preoccupato di alleviare almeno un po’ le tue sofferenze invece di fartici sprofondare, non saresti arrivata a questo punto». È un analista vecchio stile, probabilmente freudiano ortodosso o chissà, visto che siamo in Francia, lacaniano, che interpreta freddamente, non riesce a essere empatico e a lanciare un ponte affettivo verso la sua paziente. O forse, per Viviane, il contatto non è cosa facile.Sfondo di queste vicende, una Parigi livida, topograficamente precisissima, quasi che la veridicità dei luoghi possa aiutare a contenere lo sfaldamento della mente. Sfaldamento di cui è segno il continuo cambiare della persona in cui si racconta: si inizia col tu, si passa alla terza persona, poi al noi, all’io. Mutamento di punti di vista, spezzettamento dell’Io. La chiave, a mio parere, sta nella citazione di Beckett posta all’inizio del romanzo: «Da quando sono, io sono qui, dato che le mie apparizioni altrove sono state assicurate da terzi». Il riferimento è tratto da L’innominabile, romanzo che chiude la trilogia iniziata con Molloy e proseguita con Malone muore. L’io narrante è un essere in posizione seduta all’imboccatura di un breve corridoio inghiottito dalla penombra. I suoi occhi sono costantemente aperti e da questi fluiscono lacrime quasi in continuazione. In questa immobilità indisturbata l’essere pensa e racconta a se stesso delle storie. I personaggi sono insieme diversi e indistinguibili dal narratore. Così è per Viviane/Elisabeth persa nei meandri della sua mente, dove non è più possibile separare realtà e immaginazione, desideri e atti.
L'implacabile critica letteraria del New York Times, Michico Kakutani, autentico terrore di autori ed editori americani, ha speso parole decisamente lusinghiere per questo fluviale romanzo, tra l'altro vincitore del Premio Pulitzer 2014 e best-seller in molti Paesi. Il cardellino è una storia costruita e scritta alla “maniera di Dickens”, con tanto di trama principale e sotto-trame. Si svolge ai nostri giorni, affrontando problematiche di drammatica attualità. Il protagonista, l'adolescente Theo, perde la madre molto amata in un attentato terroristico, mentre insieme visitano un museo. Un'esplosione, e la sua vita presente e futura va in frantumi prendendo strade impensabili solo un istante prima. Si aprono per Theo le porte di un inferno che la Tartt rende molto credibile e descrive con straordinaria abilità. Il cardellino, piccolo e prezioso dipinto secentesco dell'olandese Fabritius, miracolosamente scampato all'attentato e che Theo ha sottratto, lo accompagna in questo drammatico percorso. Talismano e insieme sintesi di ciò che ha perso, ma anche di ciò che può ancora salvarlo: bellezza, innocenza, illusione. Il romanzo è potente, rifugge la retorica, anche se ogni tanto involontariamente ci affonda le mani.
Forse un buon editing avrebbe potuto ridurre la mole: duecento pagine in meno sulle quasi 900 complessive non avrebbero tolto nulla alla storia, ma avrebbero reso più scorrevoli alcune parti.
Detto questo, chi ama la buona letteratura non sarà deluso.
Un antico amore. L’amore dell’adolescenza, l’amore mai consumato, l’amore degli occhi negli occhi, ma nulla più. “Il filo rosso”, il nuovo libro di Silvana Peinetti, parte da molto lontano, dagli antichi filosofi greci, Eraclito prima di tutto, per narrarci di una storia sempre contemporanea: l’eterno ritorno delle cose incompiute. Un maturo signore francese bussa, dopo parecchi lustri, alle porte del cuore della sua fiamma giovanile, come se nulla fosse cambiato, incurante del tempo che ha scavato solchi non attraversabili. Vuole quello che non ci fu, forse la vecchiaia che incombe gli impone di vincere una gara da cui si è ritirato quarant’anni prima. Ma la donna, coi piedi profondamente per terra, capisce quale è il rischio di un’avventura tardiva, seppure in fondo desiderata. E farà prevalere le ragioni della ragione. Aiutata dalle parole di Eraclito e di Parmenide, cammina per una Torino fredda ma viva, e pensa al mare dei suoi sedici anni, quando Pierre riempiva tutto il suo mondo.Ma oggi il suo mondo è cambiato, e anche grazie alle sue esperienze culturali, dalla pittura al cinema alla filosofia, può comprendere la vita, il suo passato, il presente, e soprattutto il futuro, un futuro che qualcun altro vorrebbe fosse un meraviglioso salto nel vuoto.Una prova narrativa sicura, matura, in bilico tra la nostalgia e il desiderio, tra un sogno “icaresco” e una realtà pragmatica e saggia.Certo, il primo amore, forse, però, non varrebbe anche un tuffo nelle cose sconosciute?
Opera prima della scrittrice romana dalle radici piemontesi, pubblicato nel 1974 da Einaudi e ripubblicato nel 2007 narra la storia di una famiglia dell’alta borghesia che vive in modo superficiale e distaccato i momenti più intensi della storia del 900. Sullo sfondo della seconda guerra mondiale e del dopoguerra , i personaggi si muovono nel loro piccolo mondo convinti di essere indenni a qualsiasi male, dediti solo a loro stessi guardando la vita che scorre, le miserie e le atrocità come dall’alto di una finestra.La guerra, l’adolescenza, e la famiglia ed il tempo che trascorre inesorabile portandosi via giovinezza ed innocenza sono i temi portanti e sempre attuali di questo romanzo che va letto tutto d’un fiato per immergersi nell’atmosfera immobile dei pomeriggi d’estate della campagna del Monferrato, per sentire i profumi della vegetazione estiva, la frescura ombrosa della vecchia casa di famiglia e la Storia che compie il suo inevitabile cammino. La scrittura è scarna, essenziale ed incalzante : al lettore le scene appaiono a volte come scatti fotografici istantanei, altre come dipinti ottocenteschi. Natalia Ginzburg ha accompagnato la prima pubblicazione con una nota personale: “Un sommesso bisbiglio corale, dove si alza a tratti una voce più acuta, una più impaziente e ansiosa interrogazione e ricerca della libertà”.
Tempo fa ho letto un libro bellissimo. Si tratta di Limonov, di Emmanuel Carrère. Sull'onda dell'entusiasmo e dell'ammirazione per questo gioiello di scrittura, ritmo e contenuto, ho cercato altri libri dell'autore. Il primo in cui mi sono imbattuta girovagando in libreria èL'Avversario.
Si tratta di un testo più breve, ispirato a un fatto di cronaca orrendo accaduto nel 1993, in un paesino francese non lontano da Lione. In quelle tranquille campagne abitate da pii borghesucci, Jean Claude Romand ha ucciso la moglie Flo, i due figlioletti, la madre, il padre e per finire anche il cane. Poi ha tentato invano di togliersi la vita.
Quello che ha attratto Carrère in questa storia di sangue non sono tanto i fatti quanto l'assassino, o meglio il “personaggio”, come è stato per Limonov (che, tuttavia, vale la pena di sottolinearlo, ha ben altro spessore e qualità). Romand, all'apparenza esemplare padre di famiglia e figlio modello, non è in realtà quello che tutti credono e amano. Romand non è nulla. Non si è laureato brillantemente in medicina, non è ricercatore di successo all'OMS, non viaggia per lavoro, non guadagna un lauto stipendio.
La sua è una vita basata sulla menzogna, ma mentre la menzogna in genere nasconde qualcosa che esiste, una vita parallela, una doppia personalità, e non è mai “totale”, nel caso di Romand non c'è altro che il vuoto assoluto sotto il gigantesco, stupefacente castello di carte che costruisce nel corso degli anni.
Romand uccide non per passione, gelosia, follia ma per porre fine a una situazione fattasi ormai senza via d'uscita. E ancora una volta tutto si compie per sua mano e sua volontà. In questa storia le vittime non si ribellano mai. Debole, anaffettivo, privo di scrupoli, Romand resta l'arbitro assoluto di destini altrui e non solo riesce a sopravvivere alla scia di sangue che si lascia alle spalle, ma sembra anche trovare una via di riscatto in carcere. Il libro comincia come un romanzo di Simenon, atmosfera di provincia ed esistenze anonime, ma ha subito un ritmo serrato. Carrère usa la lingua con piglio giornalistico e stringato, ma anche in questa opera, come in Limonov domina i contenuti da vero maestro di scrittura. Possiede un talento indiscutibile che non scivola mai nel compiacimento e cattura il lettore. Entra magnificamente nella pelle dei suoi personaggi.
Romanzo-fiume articolato e complesso in cui si intrecciano tanti filoni, Pastorale Americana è a mio avviso uno dei libri più importanti della letteratura americana del Novecento.Sullo sfondo gli sfavillanti anni Cinquanta che scivolano incoscienti verso il drammatico periodo della sanguinosa guerra del Vietnam. Un conflitto che si svolge lontano ma che fa affiorare le “crepe” di un sistema politico e sociale fiero di sé sino alla tracotanza, al punto di ignorare i suoi limiti e i bisogni profondi degli individui, e che innesca la ribellione e la rabbia giovanile, non solo sotto forma di contestazione ma anche nelle sue espressioni più estreme. In questo contesto, il protagonista Seymour Levov, ricco e realizzato borghese di Newark, prototipo dell'americano conformista e di successo, assiste impotente alla sua caduta, non solo di industriale ma di uomo. Ed è quest'ultimo fallimento che lo segna di più. Pastorale Americana è infatti soprattutto il romanzo della solitudine di un padre alle prese con il rapporto insanabile con l'unica e adorata figlia Mary. Nel padre, Mary vede concentrate tutte le colpe del sistema che contesta e la causa di quell'infelicità senza rimedio che la spinge verso l'autodistruzione
Con questo romanzo, dal titolo ispirato da un verso di Eugenio Montale, Lalla Romano vinse nel 1969 il prestigioso Premio Strega ma, così almeno si sussurrava, perse suo figlio.Non sorprende che una rottura definitiva sia potuta accadere. In questo romanzo-confessione l'autrice mette a nudo il rapporto viscerale, e conflittuale, che la lega all'unico figlio senza reticenze. Le sue parole non sono affatto “leggere” (la leggerezza evocata dal titolo è un'altra): sono spietate come è spietata la verità raccontata senza sentimentalismi. Lalla Romano indaga le sue difficoltà e contraddizioni di madre (e di artista) ricostruendo il rapporto tormentoso con il figlio sin dall'infanzia; nel contempo dipinge con sapienti pennellate la personalità complessa del figlio, talvolta con toni tragi-comici, quasi stesse dipingendo uno dei suoi quadri (com'è noto era anche una valente pittrice), senza curarsi del suo giudizio. Sicuramente Lalla Romano doveva essere consapevole che il figlio l'avrebbe giudicata, e forse condannata per quell'intima confessione che apparteneva anche a lui, ma tirò diritto, come se l'esigenza di scrittura fosse insopprimibile e venisse prima di tutto il resto. Il risultato di questo cimento è un romanzo che tutte le madri dovrebbero leggere.
In una lunga lettera, scritta nel 1919, Franz Kafka scrive al padre Herman con cui ebbe un rapporto conflittuale che lo segnò per tutta la vita e che sicuramente condizionò le sue scelte esistenziali e la sua produzione letteraria.
Herman era uomo imponente, autoritario, con una voce stentorea: “uomo gigantesco, autorità suprema”, così lo definisce Franz nella lettera, come se lo guardasse ancora con occhi impauriti di bambino.
La lettera è un accorato sfogo emotivo: Franz rimprovera al padre di non averlo accettato e di non aver mai assecondato la sua natura. Di averlo fatto sentire inadeguato per non aver seguito le sue orme in campo commerciale, per non essersi formato una famiglia, come avrebbe dovuto fare un uomo perfettamente inserito nella società del tempo. Ma in realtà la lettera sembra l'occasione che Kafka cerca per ricostruire la sua infanzia, come se fosse necessario per lui risalire alle radici della sua sofferenza per superarla. Nello stesso tempo sembra animato dalla volontà di liberarsi dall'oppressione derivante dal rapporto con il padre, con un gesto di coraggio e rottura.Forse la lettera nasconde anche la segreta speranza di una riconciliazione che tuttavia non ci sarà, anche perché la lettera non venne mai recapitata al destinatario. Ancora una volta, l'ebbe vinta la paura.
Il protagonista dell’omonimo romanzo-biografia di Emmanuel Carrère è un personaggio tra i più controversi (e affascinanti, di quel certo fascino sinistro) del nostro tempo. Dopo un’infanzia nell’Ucraina sovietica, seguita dal precoce avvio della carriera di microcriminale, Limonov ha cambiato mille volte pelle. Poeta apprezzato negli ambienti della dissidenza, ma con questi sempre in conflitto; barbone e poi maggiordomo di un miliardario eccentrico a New York; romanziere coccolato dai salotti letterari parigini; combattente volontario filoserbo nei Balcani; carcerato nella Russia postsovietica; leader del Partito Nazionalbolscevico, che fonde suggestioni naziste con nostalgie comuniste, fiero avversario di Putin, Limonov è un idealista, un bastardo, un uomo disposto ad andare fino in fondo in qualsiasi esperienza, che si tratti di toccare l’abisso del degrado, di esaltarsi e soffrire per amore, di sfidare qualsiasi avversario e di pagarne le conseguenze.Limonov non scende a compromessi: ha una sua personalissima etica da cui non transige. Carismatico, fiero, megalomane, scandaloso e oltraggioso, ma di adamantina integrità, Limonov esce dalle pagine di Emmanuel Carrère con la statura di un eroe romantico.E, insieme al protagonista, emerge in un crescendo parossistico il desolante scenario della Russia postsovietica, in cui si consuma la liquefazione non solo delle ideologie e degli idealismi, ma anche dell’etica pubblica e privata, di qualsiasi illusione di probità.Anche se si riferisce a esperienze remote dalle nostre, è un libro bellissimo, appassionante, scritto magistralmente, vibrante di contraddizioni e provocazioni continue. E poi, non negatelo: gli uomini pericolosi ci piacciono, anche se siamo abbastanza sagge da tenercene alla larga.
libri di Fred Vargas:
Prima di morire, addio
L’uomo dei cerchi azzurri
Chi è morto alzi la mano
Un po’ più in là sulla destra
Io sono il Tenebroso
L’uomo a rovescio
I quattro fiumi
Parti in fretta e non tornare
Scorre la Senna
Sotto i venti di Nettuno
Nei boschi eterni
Un luogo incerto
La cavalcata dei morti
Una domenica mattina del 2006 ho ricevuto un sms da mia figlia Ilaria, che allora viveva a Parigi. Il testo diceva più o meno «Trova una libreria aperta di domenica e corri a comprare un qualsiasi romanzo di Fred Vargas». Ho sorriso di tanto entusiasmo ma non mi sono scapicollata in centro. Nei giorni seguenti, in libreria, mi è caduto l’occhio su L’uomo a rovescio. L’ho comprato, letto, amato e diffuso tra amici e parenti, poi, metodicamente, ho letto tutto ciò che di Vargas è stato pubblicato. Ho scoperto nel frattempo che Fred Vargas è il nom de plumedi Frédérique Audouin-Rouzeau, una donna, una ricercatrice in archeozoologia, specializzata nella trasmissione della peste nel Medioevo. Una studiosa che coscienziosamente scrive e pubblica polar (o rompol), come in argot si dice “poliziesco”.
Polar, tuttavia, molto speciali. Le storie di delitti e indagini di Vargas hanno sempre come sfondo o come tema conduttore una qualche paura atavica: la peste, i vampiri, spettri e fantasmi, il lupo mannaro. Paure notturne che rimandano alle tradizioni e all’infanzia.
Per le sue storie, Vargas sa creare ambienti indimenticabili, popolati di personaggi fuori del comune, felicemente delineati anche nei ruoli secondari. I suoi protagonisti sono gli investigatori, anch’essi stravaganti, che si spartiscono i diversi romanzi. Il commissario Adamsberg, “spalatore di nuvole” è affiancato dal coltissimo, razionale, complessato e bevitore Danglar. Una coppia che ribalta quella di Conan Doyle: qui Watson-Danglar è quello che segue la logica e fallisce, mentre Sherlock Holmes-Adamsberg arriva a sciogliere gli enigmi con il suo ondivago metodo di sognatore. Un altro singolare investigatore è Ludwig Kelweihler, ex poliziotto ed ex funzionario del ministero degli interni, che tiene un rospo sulla scrivania e possiede un’incredibile rete di informatori. In alcuni dei polar di Vargas, le indagini sono condotte da tre giovani storici, estrosi e bizzarri, che coabitano in una topaia parigina.Divertente, appassionante, creativa, a suo modo profonda, l’opera di Vargas merita di essere letta. E di essere letta non secondo la caotica cronologia delle traduzioni in italiano (tutte di Einaudi), ma nell’ordine in cui è stata scritta e pubblicata. Niente di male se si procede in ordine casuale, ma è un peccato perdere i rimandi che, qua e là, vengono fatti a vicende e personaggi dei romanzi precedenti.
L’occasione di riparlare di Vargas non viene da un nuovo polarma dalla recente uscita di Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza, (Einaudi 2013), per la verità pubblicato a Parigi già nel 2001.Questo libricino merita di essere letto non già perché in grado di gettare luce sui grandi temi della vita, ma per il gioco sapiente che Vargas conduce. Il tono saccente e presuntuoso da guru, degno di un trattato di cotanta ambizione, inciampa in continue divagazioni, dalle quali emerge il contrario di quanto il titolo proponeva: le verità dell’esistenza sono travolte e sommerse dalle normali, anzi, un po’ nevrotiche ansie di una donna alle prese con una famiglia bislacca e con un uomo che non telefona.Un libricino godibile perché trasuda intelligenza, arguzia, humour, prosa elegante e vivacissima. Un discorso che si dipana attraverso lombrichi e astici per giungere a un punto di ferma consapevolezza: per vivere di vita vera bisogna mettersi in gioco, rischiare, magari soffrire. Una vera bloomer, non c'è che dire!
E’ il “gioiello” del cantore dell’età del Jazz come fu chiamato il fascinoso Autore.L’America roaring degli anni 20 che scola champagne e scorrazza in decappottabile. Moda, lusso e sesso prima della Grande Crisi. Da questo piccolo (in termini di pagine) capolavoro è stato tratto il remake per il cinema con Leonard Di Caprio nella parte che fu di Robert Redford.
Romanzo-simbolo della Grande Depressione americana. Drammatico, intenso, brutale racconta l'esodo drammatico dei contadini del Texas dopo che una tempesta di polvere distrusse raccolti, macchine, trattori. Il bestiame morì. I contadini ridotti alla fame furono costretti a emigrare verso la California nella vana speranza di trovare un lavoro. Raccontato con una efficacissima e moderna scrittura è considerato uno dei capolavori della letteratura americana. Mentre ci sei, leggi anche “Mentre morivo”, forse il più riuscito romanzo di Steinbeck.
E' il primo di una serie di romanzi che rese celebre il grande scrittore in tutto il mondo.I temi sono quelli cari a Hemingway uomo e scrittore tormentato che pose fine alla sua esistenza nel. 1954. Romanzo sull'impossibilità di essere felici,sull'illusione dell'amore eterno e la difficoltà delle relazioni umane. Ma anche orrore della guerra, esperienza che segnò indelebilmente la vita di Hemingway. Il romanzo scritto con un stile che si può definire minimalista e ambientato tra Parigi contiene parecchi riferimenti autobiografici, come del resto tutta la produzione di Hemingway.
I romanzi di Charles Dickens li ho letti nell'adolescenza e li ho presto dimenticati.Del resto, negli anni spinti del Lamento di Portnoy, non c'era posto per questo sarcastico signore archiviato come noioso e per le sue polverose storie strappalacrime.Dopo qualche decennio, è arrivato il tempo delle riletture, che è poi il tempobloomer.Incuriosita da alcune belle recensioni apparse in occasione del bicentenario della nascita di Dickens, ho ripreso in mano Le avventure di Oliver Twist, DavidCopperfield, Grandi Speranze, Il Circolo Pickwick. Che sorpresa! Che godimento! Questo prolifico autore criticato altezzosamente da sua maestà Virginia Woolf, è un genio, un talento, uno scrittore immenso.I libri di Dickens, ambientati nell'Inghilterra vittoriana, valgono saggi e trattati di storia. Sono affreschi sociali minuziosi di una Londra brulicante e verminosa.
Bettole, interni squallidi, esterni nebbiosi in cui il bene e il male lottano spasmodicamente fino alla fine.
E soprattutto offrono al lettore personaggi indimenticabili. I più riusciti non sono i protagonisti, duttili strumenti al servizio della penna dell'autore; sono il delinquente incallito Shylock, il pavido e crudele signor Bumble, lo spregiudicato e lentigginoso Uriah Heep e tantissimi altri, una miriade di comprimari impagabili.Dickens usa le trame per esprimere tutto il disprezzo che prova nei confronti della società in cui vive, quella della rivoluzione industriale, ma se nell'abilità con cui documenta, racconta, riferisce, e nella rapidità con cui sforna pagine si intravede il cronista e il giornalista che è stato, nella costruzione dei personaggi e nella capacità di farli agire si rivela tutta la sua incomparabile abilità di scrittore.Pochissimi scrittori hanno la capacità di trasportare il lettore in un altrove cosi vivido e di lasciarlo lì, immerso beatamente nel grottesco e nell'intrigo, sino alla pagina finale.
Alice Munro ha scelto di scrivere racconti piuttosto che romanzi, ma ogni suo racconto ha il respiro e la complessità di un romanzo. Troppa felicità è l’ultimo racconto della silloge omonima, pubblicata in America nel 2009 e uscita da noi nel 2011. Quelle della scrittrice canadese sono storie di cui sono quasi sempre protagoniste le donne, dove i legami familiari, le ambivalenze sentimentali, le piccole e grandi crudeltà, la mediocrità in cui siamo immersi, le assurdità e distorsioni di senso e gli arrière pensée che intessono i rapporti tra le persone in quel prisma sfaccettato e sfuggente di significati che è la vita, si illuminano all’improvviso di un bagliore di senso e verità. In Troppa felicità, il racconto più lungo della raccolta, protagonista è la matematica russa Sof’ja Kovalevskaia, vissuta negli ultimi anni dell’800. Una donna di genio in un mondo che non riesce a concepire che una donna possa essere una scienziata di valore.
Salvatore Mannuzzu, magistrato e parlamentare, amico di Natalia Ginzburg(che molto lo stimava), ha esordito nel 1988 con il romanzo Procedura (Einaudi. Premio Viareggio, 1989).
La ragazza perduta ( Einaudi, 2011) è la riscrittura di Dedica ,uno dei sei racconti compresi nel Supercorallo
La figlia perduta, finalista al Premio Strega. Lo stesso Mannuzzu parla di questi racconti come di “piccoli feuilletons, minime loves stories”, “percorsi di ricerca tra una figura maschile adulta e paterna e una femminile più giovane, sfuggente e vitale”. La ragazza perduta è la storia surreale e a tratti comica di un amore improbabile (e inguaribile), fatto di provocazioni, malintesi, bugie e soprattutto reticenze.
Come in un noir la soluzione finale appare assolutamente imprevedibile, anche se l’abbiamo avuta fin dall’inizio sotto gli occhi. Una scrittura magistrale, tersa, esatta e insieme dolente, che procede per sottrazioni, per silenzi e assenze. Un piccolo capolavoro di classicità, come un gioiello di filigrana degli orafi di Bosa.